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Non ci sono moltissimi scrittori italiani il cui nome è noto in tutto il mondo: uno di questi è senz’altro Primo Levi. Levi nacque a Torino nel 1919. Per via dell’appartenenza della sua famiglia alla comunità ebraica, la sua famiglia rientrò fra le tante perseguitate dal Fascismo. Con il patto stretto fra Hitler e Mussolini, nel 1938 entrarono in vigore le leggi razziali contro gli ebrei, ai quali venne precluso l’accesso alla vita sociale e politica. In questo clima Primo Levi, chimico di professione, venne prima arrestato per la sua militanza fra i partigiani, infine deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Qui rimase quasi un anno e fu uno dei pochi a uscirne vivo, anche grazie alle sue competenze di chimico che gli garantirono una posizione meno rischiosa all’interno del campo. Finita la guerra rientra in Italia dove si dedica alla professione di chimico, oltre che a quella di scrittore. morì nel 1987 in circostanze misteriose: secondo alcuni si trattò di un incidente, secondo altri di suicidio. Le sue spoglie riposano presso il campo israelitico del cimitero monumentale di Torino. Attraverso i suoi scritti e le sue poesie, lo scrittore testimoniò la progressiva e inesorabile distruzione dell’uomo messa in atto con l’olocausto. La sua voce fu una delle prime e più autorevoli a raccontare un dramma così indicibile da ridurre invece moltissimi altri sopravvissuti al silenzio.
Nel 1938 la dittatura fascista promulga le leggi razziali che causano molte e gravi discriminazioni nei confronti degli ebrei, come il divieto di contrarre matrimoni misti, l’espulsione dalle scuole e dai pubblici impieghi. Tuttavia non è ancora manifesta, da parte del regime, l’intenzione di sterminare gli ebrei come stava già accadendo in Germania. La situazione cambia repentinamente con l’armistizio dell’estate del 1943, quando La Germania occupa l’Italia. Hanno così inizio i rastrellamenti, compiuti dai Tedeschi con l’aiuto e la collaborazione dei fascisti della Repubblica Sociale, e migliaia di ebrei italiani vengono deportati. Circa il 20% degli ebrei italiani morì durante la deportazione e la prigionia.
Prima opera di Primo Levi, capolavoro assoluto, classico della letteratura mondiale, è altresì uno dei resoconti più lucidi e toccanti dell’esperienza dei prigionieri nei campi di sterminio. Terminato subito dopo il rientro in Italia, con ancora sulle spalle un lunghissimo viaggio attraverso l’Europa per raggiungere Torino, l'opera risponde all’esigenza del suo autore di liberarsi di un fardello pesante condividendolo con gli altri, per far conoscere cosa è accaduto, nel nome di chi non può raccontarlo. Il testo fu abbozzato già durante il periodo della prigionia: «Era talmente forte in noi il bisogno di raccontare», scrive l’autore, «che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita». Pubblicato nel 1947, come accadde ad altre precoci testimonianze sull’Olocausto, il racconto di Levi non riscosse successo; fu letto da poche persone, si preferì fingere di non sapere o dimenticare: le ferite erano ancora troppo fresche perché se ne potesse parlare. Levi faticò perfino a trovare un editore: Se questo è un uomo uscì inizialmente per un piccolo editore, distribuito in sole 2500 copie. Bisognerà attendere il 1955 perché venga ripubblicato da Einaudi e diffuso su ampia scala, affermandosi via via fino a divenire uno dei libri italiani più letti e tradotti del secondo Novecento. Tra le numerosissime testimonianze che si sono succedute negli anni, quella di Levi si distingue come un’analisi particolarmente lucida, frutto di un approccio razionale, quasi scientifico, e al tempo stesso, carica di uno spessore auoriflessivo che interroga e ci interroga sul nostro statuto di esseri umani.
Come capita a tutti i sopravvissuti, Levi non superò mai veramente il trauma dell’esperienza nei campi di concentramento, né riuscì mai a perdonarsi il fatto di essersi salvato,a fronte dei milioni di perseguitati uccisi scomparsi durante la Seconda Guerra Mondiale. Per tutta la vita convisse con il senso di colpa di avercela fatta. Nel 1986, ben quarant’anni dopo la fine della guerra e un anno prima della sua morte, Levi pubblica il saggio I sommersi e i salvati, nel quale ancora una volta affronta l’argomento della prigionia. È la sua ultima opera, che pare voler chiudere un cerchio che si era aperto decenni prima con Se questo è un uomo. Il libro è molto complesso e intenso perché tratta argomenti importanti, come il ruolo della memoria e le sue dinamiche spesso ingannevoli, la violenza intrinseca della natura umana, le vergogna e l’alienazione che provano i sopravvissuti, una volta rientrati a casa, e tutto quello che ancora devono affrontare nel confronto con chi non ha vissuto la medesima esperienza o addirittura la rimuove o la nega. Nel saggio Levi mette a fuoco concetti centrali per la riflessione sociologica e filosofica intorno al dramma dell'Olocausto e, in senso allargato, del trauma: il rapporto tra trauma individuale e collettivo, l'annichilimento e l'afasia dei sopravvissuti che convive con il dovere della testimonianza, l'impossibilità di una testimonianza integrale, non tanto per la soggettività di ogni esperienza ma per la drammatica assenza del racconto dei tanti e tante che non ce l'hanno fatta. E ancora parlando della vita nei lager analizza quella che definisce “zona grigia”, cioè il comportamento di certi prigionieri che per spirito di sopravvivenza ed egoismo sono pronti a collaborare coi propri carnefici pur di ricevere in cambio trattamenti di favore.
Una fotografia dell'autore, Primo Levi.
L'ingresso al campo di Auschwitz.
La copertina della prima edizione di Se questo è un uomo.
La copertina di una delle edizioni de I sommersi e i salvati.