Fulco Pratesi e il WWF. Dal mirino del fucile all’obiettivo della macchina fotografica
90 anni e non sentirli. Fulco Pratesi, il fondatore del WWF Italia, compie 90 anni e si racconta.
Dal mirino del fucile all'obiettivo della macchina fotografica. Mai come oggi la salvaguardia del pianeta e la transizione ecologica sono urgenti.
Osservare la Natura: dal mirino del fucile all’obiettivo della macchina fotografica
Come è nato il suo interesse per gli animali?
« Ho amato la natura fin da bambino.
Sarà stato per mia madre, che riservava alla vita un peculiare sguardo d’amore e si curava degli animali. Tutti gli animali. Dai pipistrelli in difficoltà al ratto bianco che le portai un giorno dopo averlo sottratto alla vivisezione: piccolo com’era, dormiva nel cassetto di un comò con un calzino di lana per tana e un compagno d’avventura, un altro topo bianco pure lui. Mi piace raccontarlo, perché l’impegno per la natura è una scelta etica per le generazioni future, ma anche una postura verso la vita, un susseguirsi di gesti intessuti di cura.
Uno dei ricordi più vividi che ho sono le gite al Giardino Zoologico di Roma: nonostante gli animali fossero in gabbia, potevo osservarli e disegnarli.
Con gli animali un ho legame affettivo e personale, insomma, come per molti bambini e bambine di oggi. Ma non pensate che tutto sia lineare. Per quanto possa sembrare strano, dai 16 ai 29 anni sono stato un cacciatore: in un certo senso anche quello è stato un modo, seppur cruento, di avvicinare il mondo animale. Questa contiguità con la lotta per la sopravvivenza e con la sofferenza animale ha lasciato un segno profondo.
Nel 1953, a 19 anni, mi imbarcai in solitaria su una nave cargo per andare in Kenya: sulle orme del mio eroe Herman Melville e del suo Moby Dick, e con in testa i paesaggi di Salgari, mi immaginavo a domare elefanti e cacciare tigri: un safari insomma, un viaggio d’esplorazione e una battuta di caccia negli spazi aperti del paesaggio africano.
La bellezza della savana, dominata dalla vetta innevata del Kilimangiaro e dalle sagome austere di rinoceronti ed elefanti, mi affascinò a tal punto che negli anni successivi continuai i viaggi in tutta l’Africa, dall’Algeria al Congo, fino in Somalia. La passione per la caccia mutava via via in interesse geografico e sociologico.
Nel 1963 maturai la mia scelta. Mi trovavo in una fitta foresta dell’Anatolia turca, con l’idea di uccidere un orso. Ero solo, con la mia carabina imbracciata, avanzavo cauto in cerca della preda: un’orsa seguita da tre cuccioli mi passò a pochi metri. Fu una visione maestosa e silenziosa, che mi folgorò.
Tornato a Roma, mi liberai dei fucili e acquistai binocolo e teleobbiettivo: avevo 29 anni e avrei continuato a interessarmi alla natura e agli animali, ma senza più sparare un colpo.»
Uno stanzino e un panda disegnato a mano: le grandi avventure cominciano dalle piccole cose
Come nasce il WWF?
« Si dice che i grandi progetti nascano da grandi idee. Può darsi, ma ricordo che da ragazzino non avevo poi idee così chiare. E di certo non avevo in mente il WWF.
A metà degli anni Sessanta insieme a Hardy Reichelt, un giovane ornitologo tedesco, fondai la Stazione Romana per l’Osservazione e la Protezione degli Uccelli. Battevo la laguna di Orbetello nella Maremma toscana, con la macchina fotografica ormai al posto del fucile, per tentare di ritrarre qualche uccello in natura.
Girando per stagni e paludi, ebbi il secondo incontro determinante per la mia carriera. Questa volta non fu un’orsa con i suoi cuccioli a incantarmi, ma la scoperta del nido di una coppia di Cavalieri d’Italia. Come mai rimasi stupito da questo incontro? In fondo la laguna era piena di uccelli. Ma questo uccello migratore dai colori affascinanti (il corpo bianco, con le ali nere e le lunghe zampe rosse) e proveniente in primavera dall’Africa centrale, secondo i trattati di ornitologia non nidificava da più di un secolo in Italia. Entusiasti di questa scoperta, iniziammo una battaglia per proteggere quel sito, allora ancora battuto dai cacciatori, che in Italia stavano superando i due milioni.
Ebbi così l’idea di scrivere ad una associazione per la protezione della natura: il World Wildlife Fund, che oggi tutti conosciamo come WWF. Fondata in Svizzera nel 1961 da un gruppo dei maggiori naturalisti a livello internazionale. La risposta, purtroppo, fu negativa; ma sapevo che la mia “missione” avrebbe incontrato intoppi e difficoltà, e quindi non mi scoraggiai, e anzi continuai a impegnarmi con maggior entusiasmo e motivazione.
La ricompensa per tutto il lavoro “nascosto” arrivò nel 1966, quando del tutto inaspettatamente ricevetti una telefonata dal Segretario Generale del WWF Internazionale. Ero stato l’unico italiano, mi disse, che avesse interpellato il WWF per salvare una zona umida e una specie di uccelli migratori in pericolo. Ma, continuò il Segretario, il WWF Italia, come tutte le altre diramazioni del WWF internazionale, avrebbe dovuto nascere solo con un impegno diretto dei cittadini.
Così radunai un gruppo di amici, in buona parte ex cacciatori come me, direttori di giardini zoologici, giornalisti, manager, naturalisti e documentaristi: stabilimmo la sede in uno stanzino del mio studio di architetto, versammo una piccola quota come primo atto fondativo e io disegnai una tessera con l’effige del Panda.
Era il 5 luglio del 1966: avevo 32 anni e iniziava un’avventura che avrebbe cambiato la mia vita.»
Folli imprese per risultati concreti: nascono le oasi del WWF
Nella pratica, cosa fa il WWF?
«Nella prima riunione del Consiglio Direttivo del neonato WWF, spiegai come la nostra attività avrebbe dovuto seguire un percorso diverso da quello di altre associazioni similari. Avremmo lasciato loro i proclami, le denunce, le manifestazioni e i convegni: noi ci saremmo impegnati ad ottenere risultati concreti.
L’occasione per fare qualcosa arrivò da un amico, che mi chiamò con una proposta che sembrava fatta apposta per noi. Il mio amico era proprietario di una grande tenuta in Maremma, nella quale si estendeva un bel lago costiero: il lago era dato in affitto a una società di cacciatori, che ogni anno vi abbattevano migliaia di uccelli migratori. La proposta era semplice: subentrare ai cacciatori e rendere quella zona un’oasi protetta. L’investimento economico era proibitivo per una associazione appena nata, ma accettammo la sfida.
Era il 1968: oggi l’Oasi del Lago di Burano può considerarsi la prima delle oltre 100 oasi e riserve del WWF che attualmente, come un Parco Nazionale diffuso, difendono 30 000 ettari di paesaggi e natura dalle Alpi alla Sicilia e alla Sardegna.
Un’altra mossa, ancora più temeraria, la considero l’acquisto realizzato nel 1985 dal WWF della tenuta di Monte Arcosu, una ex riserva di caccia di oltre 3000 ettari nel sudovest della Sardegna. In questo splendido territorio di boschi, macchia mediterranea, picchi granitici e corsi d’acqua, sopravvivevano non più di 100 degli ultimi cervi sardi, già estinti in Corsica.
La somma richiesta era assolutamente sproporzionata per una associazione che allora era appena salita a 50mila soci, ma anche in questo caso ci lanciammo in questa folle impresa. Grazie a una colossale raccolta fondi, alle decine di migliaia di sottoscrittori di ogni tipo, ai bambini dei Panda Club che vendettero francobolli chiudilettera da 500 lire con il disegno del cervo sardo, e al contributo della Comunità Europea (oggi Unione Europea) riuscimmo a pagare il dovuto. I cervi a Monte Arcosu sono saliti da 100 a oltre 1000 e in tutta la Sardegna oggi superano i 7mila esemplari, finalmente sfuggiti a un’estinzione che sembrava inevitabile.»
Un coccodrillo nel bidet: storie di viaggi e animali
Cosa possiamo fare per proteggere l'ambiente?
«A chiunque coltivi l’ambizione di educare le persone al rispetto e alla difesa della vita sulla Terra, ho un prezioso consiglio da offrire: guardate il mondo da vicino, osservate la sua varietà. In una parola: viaggiate.
Nel 1956 io e mio cugino Fulco, poco più che ventenni, partimmo su una nave cargo per un viaggio che ci portò in tre mesi da Napoli a Matadi, sul Fiume Congo, passando per quasi tutti i porti da Algeri a Tangeri, e da lì a quelli della costa occidentale dell’Africa, dal Senegal alla Sierra Leone, dalla Guinea alla Costa d’Oro (oggi Ghana), da Lagos in Nigeria, a Monrovia in Liberia, Douala nel Camerun. Era molto tempo fa, e la maggior parte degli Stati che toccavamo erano ancora possedimenti coloniali.
Durante una lunga sosta in rada a Douala, stimolati dai ragazzi che in canoa offrivano frutti o animali, acquistammo tre scimmiette, per salvarle dalla prigionia di quel commercio esotico. Mio cugino scelse per sé due esemplari di cercopiteco grigioverde: una femmina, cui diede il nome di Sofia, e un maschio, Pedro, che morì a casa mia mangiando dentifricio. Io scelsi una deliziosa cercopiteco mona di nome Lola, che visse con me per anni e strinse grande amicizia con la mia setter Lass, fino a che, per i tanti guai agli arredi domestici, fu donata al Giardino Zoologico di Roma, dove trovò un marito della stessa razza con cui tirò su famiglia.
Mia madre sempre lei - mi aveva chiesto, prima che partissi, di portarle una scimmia. Ma in Italia l’importazione di animali era vietata, e così dovemmo sbarcare, invece che a Genova, nel porto francese di Sète, dove papà e mamma vennero in auto a recuperarci. Quando alla frontiera italiana il finanziere ci chiese quali souvenir avessimo portato dalla lunga crociera, con aria disinvolta gli facemmo controllare i pesci palla impagliati per le nostre amiche italiane, raccolti nell’automobile dei miei genitori. Ma mentre il finanziere rovistava nei nostri bagagli, dalla cesta in cui avevamo chiuso le scimmie clandestine, fino ad allora silenziose e tranquille, uscì il braccino nero di Lola: mi si gelò il sangue, ma fortunatamente il doganiere non vide quel piccolo arto peloso e la nostra improbabile carovana di umani e animali poté continuare il viaggio verso casa.
Un’altra esperienza zoofila si presentò nella rada di Monrovia, in Liberia, quando da una delle solite canoe un ragazzo mi offrì un coccodrillino, grande come un ramarro. Per sottrarlo ad altri acquirenti che, temevo, lo avrebbero usato per farci un portafoglio, lo comprai con l’idea di liberarlo in una località per lui meno pericolosa.
Per metterlo a suo agio, riempii il bidet della cabina e ce lo misi dentro. Ma il piccolo coccodrillo non sembrava contento né della sistemazione né del mio tentativo di salvataggio, e ogni volta che provavo ad avvicinarmi saltava su con una tale energia che rapidamente mi convinse a riportarlo nella sua rada.
A queste esperienze di gioventù se ne accompagnarono infinite altre. Ho scorrazzato per i luoghi più lontani e selvaggi del mondo di allora in almeno tre vesti: come giornalista, come responsabile del WWF delle missioni ecologiche in favore delle specie in pericolo, e anche come architetto, elaborando progetti per le aree protette.
Mi hanno accompagnato in giro per il mondo due oggetti semplici e preziosi, che ricevetti in dono dai miei figli: un taccuino naturalistico e un set di piccoli acquerelli portatili. Dal 1981 ad oggi, viaggio dopo viaggio, ho riempito 16 diari e 12 taccuini con notizie e acquerelli che vanno dagli orsi polari nella Baia di Hudson nel Labrador canadese, alle tigri reali del Bengala, dai rarissimi leoni indiani del Gujarat ai rinoceronti del Nepal, dalle orche di Vancouver ai gorilla di montagna dell’Uganda. Il tutto col contorno degli orsi e delle foche del Kamchatka, dei leoni, leopardi e ghepardi della Tanzania, degli immensi coccodrilli marini dell’Australia e dei multicolori gioielli delle Barriere coralline delle Maldive, delle Andamane, del Sudan e del Mar Rosso.»
Quanta acqua ci vuole per una coscienza pulita?
Piccoli gesti ecologici quotidiani: servono davvero a qualcosa?
«Hubert Reeves, grande astrofisico canadese morto nel 2023, disse: "L’uomo è la specie più folle: Venera un Dio invisibile, e distrugge una Natura visibile. Senza rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quello stesso dio che sta venerando."
Se la Natura e la biodiversità sono patrimonio unico e irriproducibile, credo che ogni sacrificio o limitazione che aiutino la Terra siano per noi un obbligo.
Il fatto di aver viaggiato in gioventù soprattutto in Africa e in Oriente mi ha fatto conoscere l’importanza dell’acqua per la vita. Non solo quella dell’uomo, anche se vedere povere donne somale costrette a marciare per giornate con in testa la pesante brocca di un’acqua sporca e fangosa, mentre solo per farmi la barba utilizzavo la quantità di acqua limpidissima che a un bambino di quegli aridi luoghi doveva bastare per tutte le esigenze giornaliere, mi costrinse a pormi domande molto scomode.
Un episodio privato che da bambino più mi colpì fu il vedere che la mia gatta, quando non aveva a disposizione la sua ciotola, bevesse direttamente nella tazza del gabinetto. Che quell’acqua purissima - che a Roma deriva da antichi acquedotti provenienti da limpide sorgenti montane e, più tardi, dal Lago di Bracciano - fosse utilizzata come sciacquone dei gabinetti (12 litri), per il lavaggio di automobili e altri scopi poco ecologici, mi convinse ad impegnarmi per cambiare le cose.
Per la mia igiene personale, dopo aver scelto di non usare la vasca da bagno (dai 60 ai 100 litri di acqua potabile da restituire calda, sporca e inquinata nello scarico), la mia antipatia è andata anche alla doccia: i lavaggi completi danneggiano la preziosa patina protettiva e idratante a protezione dell’epidermide, oggi malamente sostituita da costose creme idratanti chimiche.
Queste abitudini igieniche devono essere commisurate con il fatto che l’Italia è il Paese che consuma più acqua in Europa (428 litri a persona) e con il maggiore consumo europeo di acque in bottiglia, pur disponendo di una incomparabile quantità naturale di questo prezioso liquido, mentre altre nazioni europee si devono accontentare di acque prelevate da grandi fiumi inquinati o da pozzi in falde sotterranee.»
Si difende ciò che si ama, si ama ciò che si conosce
Ha girato la boa dei 90 anni: se dovesse fare un bilancio?
«Ora che ho 90 anni, traccio un bilancio: ho alle spalle una vita in difesa della Natura. Conoscere, amare e difendere il pianeta e tutte le sue forme di vita sono in tre poli attorno a cui è ruotato tutto.
Innanzitutto, il desiderio di conoscere. Prima di qualsiasi azione in questa lunga battaglia, è necessario munirsi di nozioni precise e inappellabili: una cultura ad ampio spettro dove la Storia e la Geografia sono protagoniste. È utile, inoltre, ricordare agli studenti di oggi che l’insegnamento delle Scienze Naturali fu eliminato per 30 anni, dal 1923 al 1950 circa: oggi lo studio delle basi biologiche della vita sulla Terra ha finalmente ripreso a germogliare, ed è una opportunità e un privilegio poter acquisire gli strumenti per comprendere come funziona la vita sulla Terra. A voi ragazzi e ragazze dico: approfittatene, sfruttate questa grande opportunità.
La seconda prospettiva, quella che porta ad amare la Natura, discende spontaneamente dalla sua conoscenza. È difficile, infatti, una volta entrati nei suoi mirabili e perfetti meccanismi, che non la si possa amare: ci parla infatti della nostra stessa vita, del nostro ruolo nel mondo, delle relazioni invisibili che ci legano alle piante e agli animali. Si ama la Natura quando si scopre come noi stessi siamo protagonisti decisivi di un sistema non solo delicato e complesso, ma ricco di sorprese e di meraviglia.
La conseguenza diretta e necessaria che si impone a chi desideri una conoscenza scientifica non basata su dicerie, tradizioni e superstizioni fasulle, sarà quella di difendere la Natura. Il nostro Pianeta, a quanto si sa, è l’unico che mantenga il miracolo della Vita: non è un ottimo motivo per impegnarci nella sua difesa?»
Il mondo è delle ragazze e dei ragazzi che lo abitano
Chi ha la sua età, spesso critica i giovani di oggi e il loro modo di vivere. Cosa si dice al WWF?
«La crescita della specie Homo sta rapidamente provocando il declino del nostro meraviglioso pianeta e della sua biodiversità, minacciata dalla distruzione di ambienti e habitat ancora “selvaggi” e dalla perdita di milioni di ettari di natura con tutte le creature ad esse legate.
La specie a cui apparteniamo (avida ed egoista pure contro i propri simili nei popoli meno fortunati, e responsabile dell’aumento di anidride carbonica e altri gas climalteranti grazie al consumo irresponsabile di combustibili fossili) rischia di scegliere la via del proprio declino.
Tutto questo, nonostante "madre natura" stia disperatamente inviando chiari segnali di allerta, con aridità devastanti e incendi, e carestie ad essi collegati, cicloni e alluvioni irrefrenabili e ripetuti, fusione dei ghiacciai che produrrà un aumento del livello dei mari e degli oceani.
Come tentare di rimediare o almeno rallentare questo incombente futuro?
La parola dovrebbe essere lasciata a tutte le ragazze e i ragazzi delle prossime generazioni, a partire dalle manifestazioni di movimenti spontanei di protesta come Fridays for Future. E ancora di più ai tantissimi e alle tantissime responsabili e attivisti di associazioni ambientaliste, supportate dal lavoro fondamentale ma inascoltato del mondo scientifico.
La prossima mossa è la vostra, ragazzi e ragazze: usate la vostra sensibilità, il vostro coraggio, la vostra creatività e la vostra indipendenza per pensare “pensieri” nuovi, proporre soluzioni differenti da quelle del passato, e trovare la strada per fare della Terra un posto ricco di varietà, vivo e accogliente.
Ci vedremo lì, ne sono sicuro.»
©Atlas 2024 Coordinamento: S. Gadda. Redazione: L. De Tommasi. Immagini: ©WWF Italia; Archivio Fulco Pratesi.