Pop Art. La lezione digitale

La Pop Art nasce nel secondo dopoguerra in una società trasformata dal benessere economico, dai mass media e dalla cultura di massa. Gli oggetti di uso quotidiano, le immagini pubblicitarie e i volti delle star diventano protagonisti dell’arte. È la prima volta che il linguaggio artistico attinge direttamente alla comunicazione visiva popolare, trasformando l’ordinario in icona

Pop Art: l’arte della società dei consumi

Negli anni Sessanta del Novecento, il boom economico occidentale porta a un’intensificazione dei consumi, alla diffusione della pubblicità e della televisione, e a una vera e propria estetizzazione della vita quotidiana. In questo nuovo contesto culturale, la Pop Art si sviluppa come reazione all’arte astratta e concettuale, spesso distante dal pubblico. Essa abbraccia invece i linguaggi del fumetto, della pubblicità e del cinema, e rielabora le icone del consumo e della celebrità.

Pur non esprimendo giudizi espliciti, la Pop Art testimonia il proprio tempo e ne riflette le contraddizioni, trasformando l’oggetto comune in simbolo e mettendo in discussione l’identità dell’arte e dell’artista stesso.

La Pop Art inglese

La Pop Art non nasce negli Stati Uniti, come spesso si crede, ma in Gran Bretagna, nel contesto culturale dell’Independent Group, attivo all’Institute of Contemporary Arts di Londra. È il 1956, anno della mostra This is Tomorrow, che può essere considerata il primo momento ufficiale del movimento. In questa esposizione, oggetti e immagini della cultura popolare – elettrodomestici, pubblicità, fumetti – entrano nella scena artistica come strumenti per riflettere sui desideri, i consumi e l’identità della società contemporanea.

Tra i pionieri c’è Eduardo Paolozzi, artista scozzese di origini italiane. Nei suoi collage costruiti con ritagli pubblicitari, Paolozzi esplora la forza simbolica delle immagini commerciali, associandole ad altri desideri, come quello erotico o aspirazionale. Le sue opere sono un primo tentativo di mostrare quanto la comunicazione pubblicitaria agisca sul nostro immaginario.

Richard Hamilton, altro protagonista britannico, elabora le sue composizioni con una precisione quasi “scientifica”: il suo stile anticipa, per accuratezza e composizione, i metodi del design moderno. È considerato l’autore del manifesto visivo della Pop Art: Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?. Le sue opere riflettono la Londra degli anni '50 e '60, la cosiddetta swinging London, emblema di un nuovo stile di vita borghese e consumista.

David Hockney, infine, pur partendo dall’estetica pop, se ne allontana per approdare a una pittura più personale. Trasferitosi in California, sviluppa un linguaggio figurativo, piatto e fotografico, caratterizzato da colori brillanti e atmosfere sospese. Nelle sue vedute domestiche e nelle scene di piscina si respira un senso di mondanità solitaria, una bellezza formale intrisa di malinconia.

La Pop Art americana

È però negli Stati Uniti, e in particolare a New York, che la Pop Art esplode con forza mediatica e visiva. Alla Biennale di Venezia del 1964, la Pop americana conquista la scena internazionale, proponendo un’arte fatta di immagini note, commerciali e seriali, rielaborate con linguaggi provenienti dai rotocalchi, dalla televisione, dalla pubblicità e dai fumetti.

Claes Oldenburg trasforma gli oggetti quotidiani in sculture monumentali, deformandoli o riproducendoli con materiali inaspettati. Le sue opere giocano sull’ambiguità: un oggetto domestico può diventare molle, gigantesco, fuori scala e fuori funzione. L’artista sottolinea l’artificialità della cultura materiale, smascherando l’assurdità del culto dell’oggetto. Con la moglie Coosje van Bruggen, produce opere pubbliche imponenti – come il celebre ago e filo di Piazza Cadorna a Milano – che celebrano (ma anche ironizzano) l’estetica urbana e la società dei consumi.

Roy Lichtenstein analizza il confine tra arte “alta” e cultura “bassa”. Isola una singola vignetta da un fumetto e la ingrandisce fino a trasformarla in un quadro monumentale. Dipinge a mano i puntini del retino tipici della stampa, ricreando con tecniche pittoriche tradizionali un’estetica popolare. Le sue immagini – spesso tratte da fumetti sentimentali o di guerra – combinano ironia e distanza emotiva, mettendo in scena emozioni stereotipate e immediate, su cui ciascuno può proiettare sé stesso.

James Rosenquist porta in pittura la tecnica del collage pubblicitario. Le sue opere sono dense di contrasti e giustapposizioni, realizzate con colori accesi e forme realistico-pop. I temi sono quelli dell’american dream, ma trattati con un taglio amaro: la tecnologia, la bellezza, il benessere, la politica diventano frammenti di un puzzle visivo che denuncia – con apparente innocenza – le contraddizioni della società americana.

Ma è Andy Warhol l’artista che più di ogni altro incarna e rappresenta lo spirito della Pop Art. La sua arte abbraccia ogni aspetto della cultura visiva: dalla pittura alla moda, dal cinema alla musica, dalla pubblicità all’editoria. Nella sua Factory, laboratorio artistico e creativo ispirato alle antiche botteghe, produce in serie immagini che diventeranno vere e proprie icone della modernità: barattoli di zuppa Campbell, bottiglie di Coca-Cola, ma anche volti famosi come Marilyn Monroe, Mao Zedong e Jackie Kennedy.

Warhol usa la serigrafia per riprodurre i volti celebri: una tecnica meccanica, impersonale, in cui l’effetto “fuori registro” (leggero disallineamento dei colori) diventa una firma stilistica. Elimina ogni emozione, ogni commento personale. L’immagine è tutto, e l’artista è uno specchio passivo del tempo. Questo approccio rende Warhol un “cronista visivo” della società dello spettacolo.

 

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Dentro l'opera. Orange Marilyn di Warhol

Nell’opera Orange Marilyn di Andy Warhol il volto di Marilyn fluttua su uno sfondo di un arancione brillante e uniforme, che immediatamente cattura lo sguardo. Il colore, volutamente innaturale, crea una forte tensione tra il ritratto e ciò che lo circonda. La pelle è resa con un color rosa acceso, le labbra rosse e i capelli giallo acido: ogni tratto è enfatizzato, artefatto, distante dal ritratto fotografico originale. La tecnica della serigrafia permette a Warhol di riprodurre ciascuna immagine infinite volte, “in massa”. Ogni immagine realizzata con la medesima matrice, tuttavia, presenta leggere variazioni: spostamenti di registro, sbavature ed eventuali difetti. Warhol decide di non correggere queste “anomalie”, anzi le valorizza, rendendo visibile il processo del prodotto d’arte.

 

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Marilyn Monroe è protagonista di diverse opere di Warhol. In Marilyn Monroe (Twenty Times), l'artista trasforma il volto più celebre del suo tempo in un’icona ripetuta, seriale, distante. Come per Orange Marilyn, l'immagine dell’attrice non è creata da lui: è una fotografia di repertorio, che Warhol riutilizza con la tecnica serigrafica. I venti volti sono disposti in righe ordinate, ma ciascuno presenta variazioni minime, imperfezioni, spostamenti di registro, sbavature cromatiche. I colori sono artificiali, quasi aggressivi: verdi acidi, rosa carico, viola e giallo si sostituiscono alla realtà, rendendo il volto irriconoscibile nella sua natura umana.

La serialità industriale, tipica della serigrafia, diventa un modo per parlare di ripetizione mediatica, di consumo dell’immagine, ma anche di svuotamento dell’identità. Marilyn non è più un soggetto, ma un simbolo, una maschera. La sua icona, così ripetuta, si logora davanti agli occhi dello spettatore, come un manifesto pubblicitario sbiadito dal tempo. Warhol, nel suo apparente distacco emotivo, propone un messaggio inquietante: la bellezza, il glamour e la celebrità sono destinati a esaurirsi, diventano icone di morte. La stessa Marilyn era morta da poco: questo lavoro diventa quindi anche un tributo funebre laico, freddo e lucido, all’effimero del successo.

Confronta l'opera di Wharol con M-Maybe di Roy Lichtenstein, soffermandoti in particolare sui seguenti aspetti: tecnica, fonte iconografica, soggetto, tono, messaggio dell’opera.

Entrambe le opere riflettono sull’identità femminile: Warhol ne mostra la disintegrazione nel culto dell’immagine, Lichtenstein ne rappresenta l’artificialità emotiva e l’inganno narrativo. Entrambi lavorano sulla ripetizione (seriale o concettuale), sull’uso di un linguaggio popolare, ma spingono il pubblico a guardare oltre la superficie: cosa c’è davvero dietro un volto? Un’icona? Un balloon? Rifletti con la classe: in che modo queste immagini parlano della società in cui viviamo oggi? Ci sono oggi “nuove Marilyn”? Quali sono le icone del nostro tempo? I social media hanno portato avanti la serialità o ne hanno cambiato il senso?


©Atlas 2025 | Materiali e attività a cura di Martina Degl'Innocenti e Giulia Baccanelli. Contenuti didattici abbinati ai corsi Il segno dell'arte e Il segno dell'arte Edizione Smart.
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